Luogo: Grande Parco Vatrenus – Sant’Agata sul Santerno
Anno: 2021
Ninì Santoro per Terrena – Land Art in Bassa Romagna sulle tracce di Dante
A cura di Giuseppe Capparelli
Traghetto è un’installazione site specific, collocata nel Grande Parco Vatrenus nei pressi del fiume Santerno nel comune di Sant’Agata. Questo lavoro si ispira al Canto III dell’Inferno, al momento in cui Dante, accompagnato da Virgilio, si appresta a varcare la soglia dell’Oltretomba per iniziare il suo personale cammino verso la salvezza. Nel terzo canto dell’Inferno si entra finalmente nel vivo del racconto. Questo atto di passaggio verso l’ignoto, dal terreno all’ultraterreno, è fondamentale nella Divina Commedia, in quanto Dante entra fisicamente nel regno dei morti e qui legge sulla soglia d’ingresso la famosa intimazione: Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate. La porta degli Inferni rientra in quella categoria di architetture magiche sorte nell’immaginario comune durante il Medioevo e conosciute sotto il nome di “porte parlanti”. Queste sono una singolare tipologia di costruzioni che permettono a chi le varca di subire un cambiamento intimo e interno oltre che di vivere una spazialità nuova e ignota. La porta è l’emblema del passaggio, della transizione e del rinnovamento. Sulle sponde del fiume Acheronte Dante e Virgilio attendono l’arrivo dello psicopompo, cioè un demone accompagnatore di anime, Caronte. Il Canto III, oltre ad essere l’incipit del viaggio ultraterreno, è anche il canto nel quale si chiarisce la vicenda privata di Dante. Il poeta nell’attraversare il fiume del dolore scorge fra gli ignavi la figura di papa Celestino V, che a causa dell’abbandono del suo ruolo di pontefice ha permesso l’elezione del nuovo papa Bonifacio VIII, fautore della vittoria dei Neri a Firenze. Questo avvenimento determinò la cacciata di Dante da Firenze: quasi per volontà divina il Gran rifiuto fu, quindi, causa dell’esilio e della conseguente stesura della Divina Commedia.Le fonti raccontano come fino ai primi anni dell’Ottocento sul fiume Santerno esistesse un traghetto a fune a pagamento per il passaggio da una riva all’altra. Durante la dominazione napoleonica questo venne abolito per far spazio ad un ponte di legno più veloce e funzionale. Ma questo primo ponte non ebbe lunga durata, tant’è che durante i conflitti tra francesi e austriaci Gioacchino Murat lo bruciò per bloccare l’avanzata delle truppe del kaiser. I santagatesi, che dalla costruzione del ponte avevano dovuto rinunciare a importanti introiti, chiesero a gran voce di non far costruire un nuovo ponte e di ristabilire il traffico del vecchio traghetto. Da queste premesse nasce l’opera di Santoro che diviene così metafora del passaggio, dell’alternarsi delle stagioni della vita, dal suo inizio al suo declino. Per costruire questa installazione sono stati raccolti e utilizzati i materiali naturali presenti sul posto: tronchi maturi che rappresentano la saggezza e la vetustà legati da giunchi di palude, metafora di forza e di vigore giovanile, che danno stabilità a tutta la struttura. Inoltre, l’installazione include due capanni realizzati con canne di fiume che contengono al loro interno le terzine del Canto III divise in due parti: 1-108 e 111-136. A completamento della narrazione dell’opera, l’artista ha realizzato quattro illustrazioni grafiche rappresentanti questo Canto contestualizzandolo nel paesaggio santagatese. Quest’opera, inoltre, è da considerarsi come un omaggio alla città e come la riappropriazione di un’identità dimenticata. Il segno di Santoro generato nello spazio reale dal traghetto e dai capanni procede verso lo spazio astratto delle illustrazioni nelle quali si compie la visione dell’artista. Il dialogo fra la concretezza dell’installazione e l’effimero, determinato dal segno grafico delle illustrazioni, traduce la lirica dantesca in valore estetico. Nelle illustrazioni Santoro rappresenta un profilo del cielo che non c’è, dell’oscurità infernale, della perdita e dei ricordi legati alle anime dei morti. Il fiume da oltrepassare rappresenta l’idea esterna di un cammino senza sosta, della dinamicità degli eventi. Traghetto interrompendo la superficie delle acque permette il passaggio dell’uomo, attesta la sua consapevolezza all’interno del mondo e come la ragione sovrasti il sublime.L’importanza del segno grafico per l’universo dantesco è stata storicamente determinante anche nella serie di incisioni dedicate alla Divina Commedia realizzate nel 1861 dal pittore e incisore francese Gustave Dorè. Le incisioni di Dorè sembrano avvolte in un tessuto di situazioni epiche e di drammi personali; i corpi maestosi si stagliano nella composizione, intrisi di quella plasticità corporea di matrice michelangiolesca alla quale l’incisore francese fa riferimento.Il senso di sospensione determinato dal lavoro di Santoro è stato anche la cifra stilistica di altri storici interventi di Land Art, su tutti merita una menzione il progetto The Floating Piers di Christo e Jeanne-Claude, realizzato nel 2016 sul lago d’Iseo. L’installazione temporanea di Land Art prevedeva la descrizione di un segno curvilineo e di alcune linee rette sulla superficie delle acque che congiungessero fisicamente la terraferma con le isole presenti all’interno del lago. Un molo galleggiante, ricoperto da un tessuto giallo, fungeva da passerella permettendo ai tantissimi visitatori intervenuti di vivere direttamente l’opera e di gettare uno sguardo nuovo e irripetibile sul paesaggio circostante.Ninì Santoro con l’opera Traghetto conduce se stesso e chi lo accompagna verso un orizzonte artificiale che vive esclusivamente nello sguardo di chi l’osserva. L’esito di questo lavoro si radica nel tempo e nello spazio. Infatti, nel 1971 realizzò per la mostra personale Gli Achei alla galleria “Editalia-QUI Arte Contemporanea” di Roma – poi riproposta l’anno successivo al Musée de la Ville a Parigi curata da Jacques Lassaigne – la scultura in ferro dal titolo Ulisse, una sorta di imbarcazione antropizzata che incarnasse lo spirito dell’eroe omerico. Su un articolo uscito in quell’anno su «Momento Sera», la studiosa Lorenza Trucchi si esprimeva in questi termini: “In questi ‘Achei’ nei quali Santoro raggiunge l’optimum dei suoi risultati espressivi e tecnici, si avverte quasi una continua equazione tra spazio, forma, materia, movimento, tanto ogni figura è perfettamente dosata in rapporto a tutti gli elementi agenti”. L’idea di Santoro “è espressa mediante scatti e tensioni di forze, in forme metalliche guizzanti e feroci” e per Carlo Bertelli, storico direttore dell’Istituto Nazionale della Grafica, “i suoi passaggi sono aperture e ripensamenti di un creatore di immagini e di pensieri che odierebbe di essere chiuso in una cifra”. Ulisse e Traghetto sono due sculture/installazioni nelle quali palpita il battito dell’artista. La prima realizzata nel pieno delle forze e del vigore giovanile, ospita idealmente l’eroe errante che intraprende un viaggio senza meta e pieno di rischi; la seconda vive sulle acque chete di un fiume e accompagna i viaggiatori con dolcezza e li conduce verso lidi sicuri e senza pericoli. Ninì Santoro continua attraverso il gesto artistico a delineare il contorno di un mondo ipotetico fatto di idee concrete nel quale l’obiettivo è di raggiungere l’apice della narrazione per congelarlo in una solida struttura vibrante e imperitura. Giuseppe Capparelli
Si ringrazia per la collaborazione l’artista Giovanna Martinelli, le Accademie di Belle Arti di Ravenna e di Bologna, la Professoressa Paola Babini e le studentesse Rebecca Fusconi e Camilla Carroli.
Pasquale “Ninì” Santoro nasce il 30 settembre 1933 a Ferrandina, in provincia di Matera. Sensibile all’influenza della letteratura e della musica (soprattutto di quella jazz), è pittore, incisore, stampatore, scultore, mosaicista, ceramista, disegnatore e creatore di gioielli. Fortuito quanto determinante è l’incontro con il critico Giulio Carlo Argan, grazie al quale inizia a dedicarsi con costanza all’arte interrompendo, così, gli studi universitari. Entrato nel circuito romano, inizia l’apprendistato presso la “Scuola del nudo” di Antonio Corpora; qui conosce Achille Perilli e comincia a frequentare lo studio di Giuseppe Capogrossi. Fino al 1978 insegna presso l’Istituto statale d’Arte di Pomezia e in seguito viene chiamato dal direttore Carlo Bertelli a tenere un corso di grafica e incisione presso la Calcografia e l’Istituto nazionale per la grafica di Roma dove rimarrà, a vario titolo, fino al 1983; nel frattempo, avvia a Cori con Renato Flenghi e Oscar Netto una scuola di grafica e calcografia.
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